Prendendo spunto dal contributo di Carlo Mazzucchelli in https://www.linkedin.com/posts/carlomazzucchelli_2021-utopia-come-esercizio-di-pensiero-activity-6750776043088441344-RkyE e dal dibattito che ne è seguito provo a delineare 3 leggi dell’utopia (più precisamente delle azioni utopiche) in chiave post-Covid. Richiamano non a caso le 3 leggi della robotica citate sempre da Mazzucchelli in un articolo precedente. Si accettano precisazioni e miglioramenti.
1. Le utopie sono dirette a un miglioramento per tutti; non personale o di gruppi di interesse. Non possono quindi tradursi in un danno per altri, vicini o lontani. L’utopia non è sovranista.
2. Le utopie debbono essere generative di un cambiamento; non immaginano ritorni a equilibri precedenti, ma prefigurano azioni concrete per creare un futuro diverso, purché non in contrasto con la legge 1.
3. Le utopie sollecitano comportamenti personali; anche individuali purché non in contrasto con le leggi 1 e 2. Non sono generative di cambiamento utopie altrui alle quali non si possa contribuire con azioni personali. L’utopia è responsabilità assunta, non delega, non “armiamoci e partite”.
L’utopia è anche trasversale e può interessare tutti i settori dell’attività umana. Mazzucchelli ne delinea alcuni (settimana lavorativa breve, più uguaglianza, giusta redistribuzione del reddito e modelli di sviluppo sostenibili), che implicitamente, se ben intendo, comportano l’affermazione del valore del lavoro (e più in generale delle azioni umane) come bene comune e non solo profitto individuale. Una bella utopia in tempo di neo liberismo così lontano dagli slogan da alcuni lanciati un tempo (“Lavorare meno, lavorare tutti!”).
Non essendo un economista delineo da psicologo un ambito per l’utopia: la salute. Dietro a questa scelta vi è un medesimo giudizio di valore: anche la salute è un bene comune da salvaguardare (e forse anche redistribuire); un bene collettivo che grava su ognuno. Grava non solo in termini di costi sul sistema sanitario (sostenuto da tutti) ma di costi umani. Non siamo monadi, viviamo in una rete (fatta di parenti, amici, conoscenti e sconosciuti), sulla quale la sofferenza impatta e nella quale si diffonde. La salute è un bonus che abbiamo in dotazione dall’inizio della nostra esistenza. La responsabilità di non dissiparlo è personale e collettiva.
Un’utopia post Covid 2021 potrebbe essere quindi il redistribuirla equamente; ma detto così non ho ancora centrato il mio pensiero, mi ci sono solo avvicinato.
La salute, lo dice anche l’Organizzazione mondiale della sanità, non è semplice assenza di malattia. Questa assenza è provvisoria, facendo i debiti scongiuri qualcosa prima o poi ci becchiamo, è anche (questo lo dico io) e soprattutto la capacità di non produrre malattia (il minimo necessario) e di affrontarla quando si manifesta.
Anche la salute non è un bene (solo) personale ma collettivo. Il Covid una cosa buona l’ha fatta sbattendoci in faccia la nostra interdipendenza anche per la salute. Abbiamo scoperto che chi sta male lontano ci tocca in realtà da vicino. Non sarebbe stato necessario il Covid per capirlo, se non coltivassimo pervicacemente la nostra tendenza all’arroccamento; sufficienti sarebbero state le croniche testimonianze di dolore che anonimi barconi continuano a traghettare sulle nostre coste. Sofferenza e salute possono essere solo illusoriamente confinati in un luogo. Anche del pensiero: posso anche essere resistente al Covid e beccarmelo senza produrre sintomi, che è una buona cosa, ma rimango un pericolo per i vicini meno resistenti. Non posso tenere stretta la mia salute, considerarla di mia proprietà, perché diventerebbe presto malattia, debbo ridistribuirla attorno con comportamenti adeguati.
A meglio vedere quella che così ridistribuisco è la resilienza. La intendo come capacità di sostenere lo stress (i tanti stress) senza ammalarsi.
L’emergenza Covid ha consumato resilienza senza dubbio.
Ha determinato paura e preoccupazioni economiche generando stress nel 61% della popolazione, secondo una ricerca (Open Evidence 2020) che ha interessato Italia, Spagna, Inghilterra; senza contare lo stress specifico molto maggiore di chi è stato direttamente esposto al Covid (malati, familiari, operatori). Ma come tutte le sciagure, che tendono invariabilmente a piovere sul bagnato, ha colpito soprattutto dove la resilienza già era minore, nei cosiddetti soggetti fragili per altre patologie e condizione sociale (in povertà ci si ammala di più, altra legge invariabile).
Così come ogni prodotto commerciale ha un impatto ambientale, inteso come costo energetico e consumo del pianeta, ogni azione ha anche un impatto umano, un costo di resilienza.
La resilienza alle malattie, Covid incluso, è minata da più fattori. David Lazzari, presidente nazionale dell’Ordine degli psicologi, nell’articolo, “Promuovere la resilienza della popolazione italiana contro SARS-CoV-2” (su PNEI Review 1, 2020) ne elenca alcuni:
- inquinamento
- alimentazione
- attività fisica
- stress
Mi soffermo, come lui, sull’ultimo fattore perché lo stress è una grande fonte di consumo della resilienza. Lo stress aumenta lo stato infiammatorio dell’organismo e abbatte le difese immunitarie. Evidenze scientifiche numerose indicano solitudine e isolamento come forte vettore di stress, così come ineguaglianza, ingiustizia sociale, precarietà, mancanza di lavoro, ignoranza, accaparramento di reddito e benefici. Tutte hanno un impatto umano fortissimo, consumano resilienza, producono malattia.
Porre queste problematiche fuori dalla nostra sfera di azione, considerarle immanenti, è un alibi all’ignavia. Come quando facciamo la spesa possiamo scegliere prodotti e filiere a basso impatto ambientale (per esempio possiamo comprare tubetti di dentifricio o pasta d’acciughe senza inutili confezioni), possiamo consapevolmente attuare comportamenti a basso impatto di resilienza, pro sistema immunitario e antinfiammatori.
Ecco quindi riformulata l’utopia 2021 post Covid:
promuovere la resilienza valutandolo l’impatto umano di ogni nostra azione
Questo significa migliorare lo stato di salute, non solo godendo del lavoro e dei vaccini altrui, ma assumendone le redini. Provare a pesare sulla bilancia dell’impatto umano i comportamenti quotidiani nel 2021, implementando quelli a minor impatto nella consapevolezza che il nostro stile di vita nostro non è, incide sul sistema e su tutti ricade. Dobbiamo rinunciare alla libertà illusoria che porta ad affermare che la testa è mia e posso andare in moto senza casco, perché se me la rompo tutti la pagano. Non è libertà il consumo privato della salute bene collettivo, è accaparramento di ricchezza a danno della maggioranza e si chiama furto.
Concludo con alcuni suggerimenti concreti, i primi che mi vengono in mente, ma chiedo contributi e integrazioni.
· La rete ci ha resi tutti hub del flusso delle informazioni, anche quando siamo piccoli snodi. Dobbiamo sforzarci di valutare e selezionare la chiarezza e fondatezza di quanto contribuiamo a diffondere. Le tante fake circolanti, rilanciate spesso in buona fede, possono diffondere paure, incertezze, a volte produrre isolamento e stigma e di fatto incrementare il consumo di resilienza. Non fare uno sforzo di valutazione prima di diffondere è ad alto rischio.
· Così come lo è riempire la rete di comunicazioni che nulla dicono di noi ma del nostro avatar. Solo apparentemente non produce un consumo di resilienza che va alimentata e promossa con vera vicinanza e valore solidale.
· Siamo circondati da situazioni di disagio e isolamento. L’anziano isolato, il vicino in difficoltà consumano resilienza, l’ignorarli consuma. Anche se ci pare di poter fare molto poco siamo sicuri di non potere fare niente? Senza scadere nella retorica della Conad, siamo sicuri di non potere disseminare almeno gesti di vicinanza? A volte un semplice saluto invece di girare la testa, una piccola ma costante interazione serve molto.
· Anche in famiglia, soprattutto con i bambini possiamo aumentare la quota di contatto, di cui oggi vi è molto bisogno per sopperire alle deprivazioni dell’emergenza sanitaria (su questo ho scritto molti post ai quali rimando).
· Il negozio sottocasa certamente costa di più e non è competitivo con la grande distribuzione e questo fa una reale differenza per molte tasche, ma siamo sicuri di non potere aumentare, anche poco, la proporzione? La spesa nel negozio è anche coltivare e non erodere il tessuto sociale.
· Aumentiamo la quota di interazione reale e fisica non soppiantandola con quella solo virtuale. Quest’ultima dovrebbe essere una aggiunta per dove non arriviamo, un territorio aggiuntivo; diventa invece una deprivazione infiammatoria se al posto di.
8 . DALLA PARTE DELLE INSEGNANTI
La quasi totalità di chi lavora nei Nidi è femmina, la stragrande maggioranza nella Scuola dell’infanzia. La maggior percentuale di lavoro al femminile dopo le suore.
Su di loro sta per abbattersi l’onda lunga della tempesta Covid: la gestione inedita degli effetti della pandemia nei bambini. Vi arriveranno ferratissime sulle normative igieniche sanitarie e dovranno scervellarsi tra nuovi regolamenti. Nulla o quasi nulla su come gestire corpi ed emozioni traumatizzati, che sarà lavoro quotidiano di tutto l’anno per schiene femminili.
In più Settembre non seguirà rilassanti vacanze e non partiranno con il piede giusto, esso stesso (il piede) affetto da dolori post-traumatici. Come la mattina dopo una notte insonne.
Dopo la notte insonne anche noi maschi non avremo una bella faccia a Settembre, ma andremo perlomeno a lavorare in luoghi a maggior produzione di reddito (mica tutti! Anzi sempre meno, ma la proporzione non cambia) in quota percentuale inversa a quella “rosa”. Per le donne bambini e calzini in piena continuità Scuola-Famiglia.
In effetti la Scuola non è una impresa molto redditizia, è solo un investimento umano per lo sviluppo in salute e benessere. Roba da donne. Atlante era maschio.